La Storia di Fontanarosa 

Fontanarosa è un antico borgo rurale dell’Italia Meridionale, adagiato su di una collina della catena appenninica, che sorge a 500 metri sul livello del mare, tra le rigogliose valli dei fiumi Frédane e Calore. Il paesaggio è quello tipico dell’agro irpino, caratterizzato dalle colture del grano, dell’olivo e della vigna e, nelle alture boschive, della quercia, del noce, del castagno e del nocciolo. Il territorio di Fontanarosa è fertile e ricchissimo di sorgenti d’acqua, come del resto svela apertamente il suo toponimo.

L’abitato, come è solito vedere nei comuni di origine medievale, si concentra tutt’intorno alla piazza principale, dove un tempo sorgeva il castello feudale (castrum), da cui dipartono e si irraggiano le sue poche strade, contornate da semplici ma eleganti case di pietra; quella stessa pietra bianca calcarea la cui lavorazione, assieme a quella della paglia del grano, è ancor oggi il vanto di tutta la regione.

Già popolata in epoca preistorica, come testimoniano numerosi insediamenti neolitici (Gesualdo, Villamaina), in epoca pre-romana quest’area era abitata da un’antichissima tribù Italica (o Osca), gli Irpini, che sarebbero derivati da una scissione (Ver Sacrum) dei Sanniti, a loro volta nati da una costola dei Sabini.
Il Ver Sacrum, o Primavera Sacra, era un rituale religioso sacrificale che le popolazioni italiche pre-romane celebravano quando avevano necessità di compiere un radicale rinnovamento della loro vita comunitaria, quindi in occasione di un momento cruciale della loro storia (una carestia, una pestilenza, una guerra, ecc.). In questa occasione venivano offerti degli animali in sacrificio alla divinità e si lasciava che tutto il popolo o i nuovi nati di quel popolo acquistassero nuova vita – primavera appunto – intraprendendo una nuova strada.

Emigrando verso luoghi ignoti, si lasciavano guidare dalle tracce di un animale, che sarebbe diventato così il simbolo della loro rinascita: la tradizione vuole che gli Irpini seguissero le tracce di un lupo, che in osco è detto appunto Hirpus e che, oltre a dare il nome a tutta l’area (Hirpinia), ne divenne il suo totem.
Le sanguinose guerre tra Sanniti e Romani, tra il IV ed il III sec. a.C., videro prevalere i secondi, decretando il definitivo dominio di Roma su tutta la parte meridionale della penisola italiana. Durante le Guerre Sannitiche non mancarono, però, episodi che segnarono il valore militare del robusto e bellicoso popolo Sannita, come testimonia l’umiliante passaggio sotto il giogo inflitto all’esercito Romano, uscito sconfitto nella famosa battaglia delle Forche Caudine (321 a.C.).

L’origine di Fontanarosa va ricercata nella storia di Aeclanum (oggi Passo di Mirabella Eclano), importante nodo amministrativo e commerciale sannitico sorto sul tracciato della futura Via Appia.
È noto, infatti, che Roma conquistò il Mondo anche grazie alla sua incessante opera di costruzione di strade che mettevano in comunicazione il centro dell’impero con la sua periferia. Spesso sulla rete viaria romana spuntarono nuovi centri o se ne svilupparono di già nati.

La Via Appia o Regina Viarum, come veniva chiamata questa mirabile opera di ingegneria, partiva da Roma per giungere inizialmente a Capua e collegare l’Urbe ai maggiori porti della Magna Grecia (Puteolis, Cumae, Neapolis), dove più intensi erano i traffici commerciali. Poi nel III secolo a.C., a seguito della vittoria dei Romani sui Sanniti, venne prolungata sino a Beneventum (Benevento) ed Aeclanum, per poi continuare giù verso Tarentum (Taranto) e Brundisium (Brindisi). Essa nasceva non solo dall’esigenza militare di Roma di colonizzare la parte meridionale della penisola e, quindi, per un più agevole trasporto delle milizie da e verso l’Urbe, ma anche per aprire Roma più direttamente alle rotte commerciali della Grecia e dell’Oriente attraverso l’Adriatico.
Aeclanum divenne dapprima municipio romano e poi colonia sotto l’imperatore Adriano, costituendo una delle maggiori città dell’Irpinia; ancor oggi, infatti, notevoli sono i resti archeologici che testimoniano il suo fastoso retaggio romano (Parco Archeologico di Aeclanum, Mirabella Eclano).

Più volte la città venne distrutta da guerre, terremoti e da saccheggi delle incursioni barbariche: nel 410 d.C visse il devastante passaggio di Alarico e dei Visigoti dalla Campania alla Puglia; nel VI secolo d.C. fu coinvolta nelle guerre tra Goti e Bizantini, finché l’arrivo dei Longobardi ed il transito dell’imperatore Costante II di Bisanzio, diretto all’assedio della longobarda Benevento (662 d.C.), spensero le ultime tracce del glorioso passato romano di Aeclanum.  Molti suoi cittadini, per scampare a morte sicura e alla distruzione dei loro averi, trovarono rifugio e si insediarono nelle zone limitrofe, dove quindi sorsero Grottaminarda, Mirabella e Fontanarosa.
Fondata, dunque, in epoca Longobarda dagli scampati cittadini eclanesi, Fontanarosa gravitò inizialmente nell’orbita del ducato longobardo di Benevento, che, divenuto principato, è da considerarsi – per dirla con le parole di Benedetto Croce – «come un abbozzo di quel che fu più tardi il Regno di Napoli».
Dopo l’anno 1000, infatti, l’avvento dei prodi cavalieri Normanni, che risalirono la penisola dalla Sicilia, andò a gettare le basi di un nuovo sistema politico, che seppe convertire «l’anarchia», in cui viveva in quel momento il Mezzogiorno d’Italia, in «gerarchia»: dai tanti eterogenei principati, contee e gastaldie longobarde, emirati saraceni e ducati bizantini, nacque il Regno di Napoli e Sicilia sotto forma di una piramide feudale con a capo un monarca.

l’Irpinia (Principato Ultra) come le altre province del regno, venne ripartita, secondo il diritto feudale dei Franchi, in grosse signorie feudali (contee, baronie, ecc.), che a loro volta furono suddivise in numerosi più piccoli feudi.
Anche la terra di Fontanarosa conobbe dunque il suo feudalesimo nella persona di Guglielmo d’Altavilla, primo signore di Gesualdo e di Frigento, a cui l’aveva concessa in dominio suo padre naturale, il duca di Puglia e Calabria, Ruggiero I Borsa (m. 1111). 
Dal sangue normanno di quest’ultimo discese dunque la potente stirpe dei Gesualdo, che, preso nome dal suo originario possedimento, signoreggiò, secondo quanto riporta il celebre Catalogus Baronum (l’indice dei feudatari compilato a partire dal XII secolo, durante il regno normanno), su gran parte del Sannio. Alle iniziali signorie di Gesualdo, Frigento, Acquaputida (Mirabella), Paternopoli, San Mango, Bonito, Lucera e San Lupolo, si andarono aggiungendo Atripalda, Chiusano, Grottaminarda, Montemiletto, Taurasi, Torella dei Lombardi, fino a contare circa 36 tra terre e città, tra cui la nostra Fontanarosa. A Gesualdo, borgo medievale confinante con Fontanarosa, ancora oggi trovasi il maestoso maniero, dalle cui alte torri i conti Gesualdo scrutavano e amministravano i loro vasti possedimenti. Avveniva in molti casi che, essendo assai numerose, alcune di queste terre venissero date dal loro signore in suffeudo a gente del suo entourage o a dei suoi vassalli locali, dietro garanzia del giuramento di fedeltà (cosiddetto “ligio omaggio”). Così avvenne per Fontanarosa, che nel 1150-52 fu trasmessa dal conte Elia, II signore di Gesualdo, figlio di Guglielmo d’Altavilla, al cavaliere Roberto di Fontanarosa, suo fiduciario. È durante il periodo della dominazione Sveva che il nome del paese ricorre per la prima volta in un documento storico: siamo nel 1206 e ad una donazione fatta dal conte Ruggiero di Gesualdo, figlio di Elia, al Monastero di Montevergine, era presente come testimone anche «Roberto de Fontana Rosa» (Archivio della Abbazia di Montevergine, registro 4509).

Stemma dell’estinta famiglia di Fontanarosa

Al primo Roberto di Fontanarosa successe nel suffeudo il figlio Guglielmo (1210), poi un secondo Roberto (1239) ed ancora un terzo (1271), infine il figlio di quest’ultimo, Bartolomeo (1311), che, come i suoi predecessori si caratterizzò per l’estrema spregiudicatezza e violenza del suo comportamento, tanto da meritare di essere bandito e condannato da re Roberto d’Angiò con l’accusa di essere stato il mandante dell’omicidio di un suo cortigiano, Nicola di Janvilla (o Gianuilla) conte di Sant’Angelo dei Lombardi, avvenuto nel giugno del 1335. Datosi alla macchia, del Fontanarosa si persero le tracce ed il suffeudo, dopo un breve passaggio nelle mani del figlio di questi, Giovanni (1343 ca.), tornò al dominio diretto dei suoi signori, i conti Gesualdo. Infatti, Ruggiero d’Altavilla, signore di Gesualdo, che successe al padre Elia, ricevette dall’imperatore Corrado IV il titolo di conte nel 1187.

L’attaccamento dei Gesualdo al partito cattolico Guelfo li mise in cattiva luce agli occhi degli imperatori germanici, che per un breve periodo concessero la baronia di Gesualdo e le terre annesse a dei feudatari tedeschi. Solo dopo la venuta degli Angioini ed il consolidamento dell’egemonia papale, Elia II Gesualdo, nipote del precedente Elia, potette riottenere i suoi feudi ed essere nominato Giustiziere di Calabria e Maresciallo del Regno da re Carlo d’Angiò.     

Se è vero che il Cristianesimo, seguendo le orme dell’Impero Romano, approdò anche in queste province intorno al IV secolo d.C. – come i rinvenimenti archeologici di Aeclanum ci testimoniano – esso si venne a stabilizzare solo dopo che i Longobardi, genti barbariche del nord della penisola, si convertirono alla religione Cristiana.
Poco alimentato in epoca normanno-sveva (XII-XIII sec.), il sentimento religioso si sviluppò maggiormente sotto la dinastia angioina (XIII-XV sec.); e non è un caso che la gran parte delle più antiche chiese di Fontanarosa siano ascrivibili a questo periodo storico: San Nicola di Bari, Santa Maria a Corte e Santa Maria della Misericordia.
Il rapporto con la spiritualità e con i suoi riti ancora oggi è molto forte tra i Fontanarosani, che partecipano numerosi alle processioni dei santi e a tutte le altre pratiche religiose.

Accanto ad un pozzo si dice essere apparsa l’immagine della Madonna, che da allora cominciò ad essere venerata e l’acqua di quel pozzo ad essere considerata miracolosa dagli abitanti: la Madonna fu detta allora “Madonna del Pozzo”.

La devozione popolare verso Maria Santissima si manifesta ancor oggi anche in occasione della tradizionale “Festa del Carro” (o “tirata del Carro”), che si celebra a Fontanarosa il 14 agosto di ogni anno, alla vigilia dell’Assunzione della Vergine.

Un obelisco di legno alto 28 metri, interamente rivestito di paglia intrecciata a mano e lavorata a motivi ornamentali, sostenuto da un pesante carro, trainato da una coppia di buoi, viene trascinato dall’intera popolazione per le strade del paese, con il tiro incrociato di robuste corde di canapa.
L’instabilità del carro, che poggia su due sole grandi ruote, e lo sforzo fisico necessario al suo movimento, sono un po’ la metafora dell’incertezza del raccolto e del sacrificio dei lavoratori della terra.

Stringente è il retaggio pagano di questa cerimonia: al termine della raccolta del grano si elevavano offerte a Cerere, Dea delle messi, in segno di gratitudine e di buon auspicio, così come poi furono rivolte alla Vergine, la cui statua lignea troneggia sulla sommità della guglia dorata.Infatti, molti culti pagani delle divinità romane e sannite, praticati in questa regione, quali Cerere, Cibele, Iside e Mefite, furono assorbiti e “convertiti” nel culto cristiano della Vergine e dei Santi.

Nel periodo a cavallo tra la dinastia angioina e quella durazzesca del Regno di Napoli, la terra di Fontanarosa visse anch’essa, nel suo piccolo, un momento di grande instabilità politica a causa di una sequela di successioni nel dominio feudale che videro lo stesso passare, per via femminile, da una famiglia all’altra.
Con l’estinzione infatti del ramo primogenito dei Gesualdo assistiamo ad un primo passaggio delle baronie di Gesualdo, Frigento e terre annesse, tra cui Fontanarosa, alla famiglia dei di Capua, e, dopo non lungi, da quest’ultima alla famiglia Caracciolo del Sole.

Roberta Gesualdo, ultima erede della linea primogenita della sua casata, aveva sposato Giacomo di Capua, figlio del più noto Bartolomeo, Gran Protonotario del Regno di Napoli.
I di Capua, in forza di questo legame matrimoniale, rivendicarono le baronie di Gesualdo, Frigento e le terre a queste collegate.
Si ritrovarono quindi ad essere signori feudali anche di Fontanarosa, fino a quando Maria di Capua, figlia ed erede dei suddetti Giacomo e Roberta, portò a sua volta l’eredità materna in dote a suo marito Filippo Filangieri, signore di Candida.
L’antica e nobile famiglia Filangieri ottenne così la cospicua baronia gesualdina, che rimase però in possesso di questo casato per un breve lasso di tempo, ovvero sino a quando Caterina Filangieri, erede della sua famiglia, e perciò contessa di Avellino e baronessa di Gesualdo, lo trasmise a sua volta un altro lignaggio: i Caracciolo del Sole.

Stemma di Sergianni Caracciolo del Sole (a sin.) e di sua moglie Caterina Filangieri di Candida (a dx.)

Ella, infatti, aveva sposato il famigerato Sergianni Caracciolofavorito della regina Giovanna II e suo potentissimo Gran Siniscalco.
Il passaggio dei beni feudali da Caterina a suo marito non fu però indolore, ma si trascinò dietro acerrime faide familiari, sanguinosi duelli e memorabili controversie giudiziarie.
Per mettere fine a tutto questo fu necessario l’intervento diretto della sovrana che, istituita un’apposita commissione di saggi, nel 1418 emanò, a tutto vantaggio del suo Sergianni, la famosa Prammatica Filangeria.
Questa storica sentenza della giurisprudenza feudale, che divenne appunto Prammatica, ovvero legge generale dello stato, rappresentò una pietra miliare nell’ambito delle successioni feudali del regno: veniva per la prima volta ammessa la successione feudale femminile anche a discapito di eventuali discendenti maschi dell’ultimo intestatario di un feudo, contravvenendo a quanto da sempre aveva stabilito in materia la legge di Corrado il Salico (legge Salica), che privilegiava inesorabilmente la linea mascolina di un casato.
In forza di quest’eccezionale sanzione il Gran Siniscalco riuscì quindi ad ottenere i feudi di Avellino, col titolo di conte, e le baronie di Gesualdo, Frigento e tutte le loro infinite pertinenze

Con l’avvento della dominazione aragonese (1442) il figlio di Sergianni, Troiano, ereditò le contee paterne e vi aggiunse la città di Melfi con il titolo ducale, mentre un ramo secondogenito dei Gesualdo reclamava invano, presso i nuovi sovrani, la restituzione dei feudi di Gesualdo, Paternopoli e Fontanarosa, che gli erano appartenuti ab immemore.
Nell’anno 1447, fu notificata infatti a Troiano Caraczulo de Neapoli comiti Avellini, duci Melfie, transumptum privilegii confirmationis civitatis Melfiae cum titulo ducatus cum territ. … Avellini, Candidae, Chiusani, Pratae, S. Magni, Locosani, Taurasii, Castriveteris, Paterni, Gesualdi, Fontanarosae, Frequenti et Candidae quae et quas possidet ex successione paternaCaraczuli regni Sicil. Magni Senescalli patris suis et ex aliis titulis; quae confirmatio fuit transumpta Neapoli per not. Filippum de Composta de pred. civit

Durante il regno di Ferrante I d’Aragona, ed in particolare al tempo della prima congiura dei Baroni e della conseguente guerra tra Angioini e Aragonesi (1459-62), che funestò gran parte del Meridione d’Italia, la terra di Fontanarosa non patì la sorte che invece toccò alle confinanti Gesualdo, Paternopoli e Taurasi.
Il conte di Avellino Giacomo Caracciolo, che nel frattempo era succeduto al padre Troiano, fu tra quei baroni del regno che congiurarono per riportare sul trono di Napoli gli Angioini. Sia la posizione strategica dei possedimenti del Caracciolo che la sua fede politica filo-angioina furono causa della sua rovina e della distruzione di molte sue terre e castelli.
Gesualdo, assediata dalle truppe filo-aragonesi del condottiero Sforza, subì infatti gravi danni, così come il castello di Taurasi.
Re Ferrante I, che uscì vittorioso dallo scontro, abbattè la sua scure sui baroni ribelli, condannandoli a morte e confiscandogli molti loro possedimenti.
Fu così che anche i Caracciolo di Avellino dovettero devolvere alla Regia Corte i loro feudi di Gesualdo, Frigento, Melfi, Castelvetere, Luogosano, Taurasi, Fontanarosa e tanti altri.

Ferrante I d’Aragona Re di Napoli

Alla famiglia Gesualdo si presentò finalmente l’opportunità di tornare in possesso dei suoi antichi feudi. Furono, infatti, Luigi II Gesualdo e suo figlio Sansonetto, I conte di Conza, discendenti di un ramo cadetto della famiglia, ad esserne nuovamente investiti tra il 1471 ed il 1473, dietro il pagamento di un lauto corrispettivo.
Re Ferrante I, qualche anno dopo, volle espressamente premiare la fedeltà che Fontanarosa seppe mantenere verso la casa reale d’Aragona durante gli anni difficili della guerra, esentandola da ogni balzello verso il Regio Fisco: “In li tempi passati pro remuneratione e la fidelità quale ne portò in questa guerra la Università di Fontanarosa con infiniti altri servitii che ne have prestato continuamente, li concessimo privilegio de franchitia de omni pagamento fiscale li toccasse pagare ad nostra Corte” (A.S.Na., Esecutoriale della Regia Camera della Sommaria, 10 agosto 1475).

Nel XV secolo la casata dei Gesualdo, oltre ad aver accresciuto enormemente il numero dei feudi, molti dei quali pervenutigli in virtù di opportune alleanze matrimoniali, assurse ai più alti onori con il titolo principesco sul feudo di Venosa (1536) e il Grandato di Spagna di prima classe nella persona di Don Luigi IV Gesualdo, V conte di Conza e X signore di Gesualdo.

San Carlo Borromeo intercede presso la Vergine per suo nipote Carlo Gesualdo penitente.

Don Carlo Gesualdo, III principe di Venosa, che, alla vastissima cultura umanistica, univa il genio del compositore e del musicista raffinato. Amico intimo di molti letterati e umanisti del suo tempo, tra cui il più noto Torquato Tasso, che ospitò più volte nel suo castello di Gesualdo, seppe farsi largamente apprezzare dai contemporanei per i suoi madrigali, senza che il loro giudizio fosse influenzato dalla sua elevata posizione sociale.

Don Carlo fu tuttavia noto anche per essere stato il protagonista di un turpe episodio, avvenuto a Napoli nella notte tra il 16 e il 17 ottobre del 1590.

Accecato dalla gelosia, Carlo si macchiò dell’omicidio della sua bellissima consorte, Donna Maria d’Avalos d’Aquino d’Aragona dei principi di Montesarchio, e del suo amante Don Fabrizio Carafa, duca d’Andria e conte di RuvoLa vicenda dei due amanti e della loro tragica fine fece subito grande scalpore e col tempo se ne romanzarono di molto i macabri contorni, se non altro per l’importanza sociale dei personaggi e delle famiglie coinvolte nel fatto delittuoso. Infatti, Don Carlo, che era nipote, per via di madre, dei cardinali Carlo (futuro santo) e Federico Borromeo e, per via paterna, del cardinale Alfonso Gesualdo, arcivescovo di Napoli, era imparentato con le più grandi casate del regno, come lo erano anche i d’Avalos e i Carafa. Dopo aver commesso l’orrendo crimine si rifugiò nel suo castello di Gesualdo, dove visse un lungo e tormentato periodo di espiazione e continua ricerca di Cristiana assoluzione, anche attraverso molteplici opere di misericordia, come la fondazione di cappelle, chiese, ospedali, monasteri e monti di pietà.

Fontanarosa, seppure a latere, partecipò a questa triste vicenda, come evidenzia un ricchissimo e spagnoleggiante altare tardo barocco, nella navata destra della Basilica di Santa Maria della Misericordia, dedicato alla Madonna della Vittoria, che fu eseguito alla fine del XVI secolo proprio per volontà della famiglia dei principi Gesualdo.

Il Santuario di Maria Santissima della Misericordia, che ottenne il titolo basilicale nel XVII secolo, spicca tra i monumenti religiosi di Fontanarosa. Sorse tra l’XI e il XII secolo come una chiesa di modeste proporzioni accanto al simulacro della Madonna del Pozzo che, nel corso dei secoli, venne ricostruita ed ampliata per l’accresciuto numero di fedeli che accorrevano a implorare le grazie alla venerata immagine della Vergine. Ricostruita in epoca aragonese, a seguito del tremendo terremoto del 1456, la chiesa venne di nuovo rimaneggiata ed abbellita tra i secoli XVII e XVIII, sempre all’indomani di altri catastrofici sismi.

Se l’esterno del Santuario conserva un aspetto alquanto sobrio, l’interno, invece, mostra tutta l’abbondanza e la teatralità tipiche del gusto roccocò. Si presenta a croce latina, con una navata centrale, dal pregevole soffitto decorato, e due navate laterali, servite da tre altari ciascuna. L’altare maggiore, in gran parte lavorato con pietra locale, innalza una pregevolissima statua lignea della Madonna col Bambino del XV secolo, che veniva probabilmente portata in processione, prima che venisse sostituita da un’altra di fattura settecentesca.

Nella chiesa era conservato ed esposto un monumentale presepio del ‘700 napoletano, composto di circa 700 pezzi, frutto di una costante e generosa opera di collezionismo dell’arciprete di Fontanarosa Don Gennaro Penta. Nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1982, noncuranti dell’atto sacrilego, ignoti criminali si introdussero nella chiesa e vi rubarono l’intero presepio, lasciando la popolazione del paese, ancora provata dalle ferite del terremoto di due anni prima, nello sgomento più assoluto. Oggi, solo una parte residua dell’originaria collezione può ammirarsi tra i capolavori del Museo Irpino di Avellino

Accanto al Santuario si erge la torre campanaria, che con il rintocco delle sue campane, dall’alto dei suoi 57 metri, scandisce i tempi della vita domestica e religiosa degli operosi abitanti.
La brillante cupola maiolicata, dai tratti orientaleggianti, caratterizza fortemente il panorama dell’intero borgo, donandogli una vivace nota di suoni e di colori.
La parte più bassa, a pianta quadrata, risale alla fine del ‘400, mente i piani più alti, dove sono ricoverate le campane, furono aggiunti più tardi.
Il campanile fu riconsacrato il 16 aprile del 1731, in occasione della riconsacrazione dell’adiacente Santuario di Santa Maria della Misericordia, a cui sembra fargli da guardia.

Sul lato occidentale del campanile, disegnata su maioliche vietresi, fa bella mostra la figura severa di un dotto predicatore domenicano del ‘600, Padre Michele Avvisati da Fontanarosa, al secolo Salvatore Avvisati.

Padre Fontanarosa – come era detto più comunemente – godè di una notevole notorietà in quasi tutta la penisola, non solo per la sua vasta dottrina, ma anche per una certa arguzia e schiettezza che egli aveva nel comunicarla.

Al centro lo scudo partito con le armi dei principi Gesualdo e Ludovisi (Castello di Gesualdo)

Un insolito destino colpì il principe Don Carlo Gesualdo, che vide morire, nel giro di poco, tutti i suoi figli e nipoti maschi. Suo figlio primogenito, Don Emanuele, che avrebbe dovuto succedergli nello stato feudale, morì qualche giorno prima di lui, per una caduta da cavallo durante una battuta di caccia. Anche il figlio secondogenito Alfonsino, che Carlo ebbe dalla sua seconda moglie, Donna Eleonora d’Este, figlia del marchese di Montecchio e di Donna Giulia della Rovere dei duchi di Urbino, morì che era fanciullo; mentre ancora in fasce gli morì il nipote Carlo, figlio di suo figlio Emanuele.Pertanto il 10 settembre del 1613, giorno della morte del principe Don Carlo, l’unica erede del principato di Venosa, della contea di Conza, delle signorie di Gesualdo, Fontanarosa, Frigento e degli altri innumerevoli possedimenti, fu sua nipote Donna Isabella Gesualdo, unica figlia superstite di Don Emanuele e della contessa Polissena von Fürstemberg sua moglie.

La principessa di Venosa, a soli 11 anni di età, era reputata una delle eredi più ricche d’Italia, con una rendita annua di oltre 40.000 ducati. Fu sposata per procura, il 1 maggio del 1622, con il patrizio romano Don Nicolò Ludovisi, duca di Fiano e Zagarolo, nipote del papa Gregorio XV, nel cui casato portò in dote tutto l’immenso patrimonio dei principi Gesualdo. In questo modo, anche Fontanarosa, come gli altri feudi gesualdini, passò sotto il dominio dei Ludovisi principi di Piombino.

Nei secoli XVI e XVII Fontanarosa visse un notevole sviluppo demografico e urbanistico che la fecero uscire dalle dimensioni e dalle forme medievali originarie. Dal piccolo guscio di case, costruite a mo’ di corona, tutt’intorno alla torre del feudatario, e fortificate nel giro più esterno per esigenze difensive, si passò alla costruzione fuori dalla vecchia cinta muraria, che lasciò un ricordo di sé solo in alcuni tratti residui e nei toponimi di certe contrade del centro storico: «via Muro rotto», «via Bastione», «via Murillo», ecc..
Le guerre e – forse soprattutto – le pestilenze indussero, infatti, gli abitanti del paese ad abbandonare le vecchie case e a costruirne di nuove, risalendo sempre più la collina e guadagnando la maggiore salubrità dell’aria

Oltre agli edifici civili, si edificarono e rimaneggiarono in questi secoli anche molti luoghi di culto.
Giusto al centro della piazza principale (oggi piazza Cristo Re) sorge la chiesa parrocchiale di San Nicola Maggiore, che, pur essendo di ben più antica origine, fu ricostruita ed ampliata nel tardo ‘600, mentre la facciata le fu rifatta nel XIX secolo interamente in pietra di Fontanarosa.
Pregevole al suo interno una tela, di chiara impronta caravaggesca, del cosiddetto Maestro di Fontanarosa – identificato in Giuseppe di Guido, attivo a Napoli nella prima metà del ‘600 – raffigurante l’Ultima Cena.
La settecentesca chiesa della SS. Immacolata, nella contrada di Santa Lucia, con le sue linee asciutte e la semplicità del suo campanile in pietra grezza – uno dei tre campanili del paese – conserva invece inalterati i tratti romantici della tipica chiesa di campagna.

Le armi dei Gesualdo e dei Ludovisi, che ancor’oggi campeggiano in molti stemmi del castello di Gesualdo, non rimasero inquartate molto a lungo, visto che i principi Ludovisi ressero il feudo solo per il tempo di due generazioni.
Infatti, alla morte di Don Niccolò Ludovisi nel 1664, che nel frattempo era divenuto principe sovrano dello stato di Piombino, gli successe l’unico suo figlio maschio, Don Giovan Battista, che egli ebbe dal suo terzo matrimonio con Costanza Pamphili, nipote di papa Innocenzo X.

Stemma dei Principi di Tocco Cantelmo Stuart (Napoli, Palazzo di Tocco – Capece Galeota)

Con il principe Giovan Battista Ludovisi si inaugura una stagione di lenta dismissione del patrimonio familiare, non solo per soddisfare i tanti debiti accumulati in precedenza per la conservazione del principato di Piombino, ma anche per lo spostamento del baricentro degli interessi familiari in altre regioni della penisola italiana.
Anche le baronie di Fontanarosa e Torre le Nocelle subirono così questa sorte ed il 23 gennaio del 1676 vennero alienate dal principe Ludovisi al principe di Acaia, Don Antonio di Tocco, alla cui famiglia rimasero sino all’eversione della feudalità nel 1806.

Con Maria Maddalena di Tocco Cantelmo Stuart, moglie del duca della Regina Don Francesco Capece Galeota, si estinse questo antichissimo e nobilissimo casato, che vantava ascendenze imperiali di Costantinopoli, fregiandosi dei titoli di Despoti di Romania e di Epiro, e che aveva governato, tra i tanti possedimenti, anche l’umile borgo di Fontanarosa.   

La storia di questo paesello dell’Irpinia, ci mostra un susseguirsi di dinastie, di uomini d’arme, di nobildonne e di cavalieri, che si sono avvicendati al suo reggimento, secondo il tempo scandito dal grande orologio della storia universale, ma, al di là della sua storia feudale ci si accorge di un’altra storia – più silenziosa e parallela, semmai, alla prima – di un’operosa comunità di uomini e di donne, che, al camminare inesorabile dei secoli, ha vissuto e continua a vivere all’ombra delle antiche tradizioni artigianali e contadine, secondo i tempi dettati dalla natura e le forme e i modi suggeriti dall’umano sapere.

Copyright
Mauro Gambini de Vera d’Aragona

Want create site? Find Free WordPress Themes and plugins.
Did you find apk for android? You can find new Free Android Games and apps.